I BIMBI PROFUGHI DALLA LIBIA a SANREMO nel 1940

Comincia con questo tronfio e trionfalistico documento che descrive la tragica vicenda di migliaia di intere famiglie di contadini, che si concluderà malamente solo negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Benito Mussolini, alle 17 del 10 giugno 1940  annuncia l’inizio della guerra contro la Francia e l’ Inghilterra, dimenticandosi di aver lasciato isolato ed indifeso parte dell’Esercito Regio in Etiopia e le numerose famiglie di contadini inviate a colonizzare la “Quarta sponda” da appena due anni.  L’ allora indiscusso, ma assai discutibile Duce, che già ai primi di Maggio aveva comunicato ad Hitler di voler terminare quanto prima la furbesca e strumentale  “non belligeranza”, pensò bene di far passare l’estate ai figli dei coloni nella terra d’origine, rassicurando i genitori che sarebbero ritornati in Libia dopo poche settimane.  L’intenzione proclamata era quella di far visitare la madrepatria ai ragazzini, ospitandoli nelle colonie marine e montane della GIL ed a spese dello Stato.  Nei primi giorni di giugno i bimbi vennero accompagnati dai genitori a Tripoli e Bengasi. Secondo le cronache, alcuni non riuscivano staccarsi dalle madri, altri si avvinghiavano al collo dei padri per non finire nelle mani di “sconosciuti”.  Altri, più fortunati, fecero meno storie per la presenza di un fratello o sorella; solo i  più grandicelli confidavano di divertirsi una volta giunti in Italia.  Al loro arrivo, i treni  li  smistarono nelle 37 colonie della costa adriatica, di quella tirrenica e in aree montane: Rimini, Igea Marina, Cattolica, Cesenatico, Fano sono alcune di esse.  L’improvvida e colpevole decisione del Capo assoluto,  per alcuni anni coinvolse anche Sanremo, dove trovarono rifugio 300 minori, costretti a star lontano dalle famiglie,  isolate oltremare.  Furono ospitati i  alberghi cittadini, ormai privi di clienti, ed in particolare al

Mediterraneè.  Il disagio dei  “vacanzati” iniziò all’ora di cena del 10 giugno 40 nei diversi refettori, quando venne comunicata la notizia dell’entrata in guerra.  Alcuni cominciarono a piangere, altri si disperarono.  A differenza di quello che si sperava e si credeva in Italia (che la guerra finisse in un paio di mesi) i figli dei coloni italiani si resero subito conto che, per molto tempo, non avrebbero potuto rivedere genitori ed i familiari. Catapultati in luoghi lontani da quelli abituali, si sentirono intrappolati: dormivano in grandi camerate senza le attenzioni dei genitori, soggetti a rigide regole base.  Quelli  ospitati a  Sanremo vennero immediatamente connotati come “Bambini libici“, anche se erano tutti dichiaratamente italiani. Personalmente, ho un ricordo incancellabile dell’evento. Anzitutto perché allora, quasi decenne, ero coetaneo di molti di loro, ma soprattutto avevo accompagnato mio padre Gianni a fotografarli uno, per una.  Del tutto privi di documenti,  dovevano essere debitamente “documentati !”.  Altro ricordo dolente di quella tragedia sono le immagini funerarie in cui i ragazzini, debitamente vestiti con divisa da balilla o da piccola italiana, accompagnavano un compagno scomparso.  Passò l’ estate del 1940 ed il protrarsi della guerra fece nascere il problema generale della gestione protratta di una vicenda che avrebbe dovuto durare solo un paio di settimane; divenne necessario smistare i bambini in altre località,  provvedere al loro sostentamento ed alla loro istruzione. Secondo le dirette testimonianze  raccolte in periodo postbellico,  le colonie assunsero la funzione di vere e proprie caserme militari in cui i bambini venivano assoggettati a rigida disciplina e controlli asfissianti. Il fischietto segnava le ore. Ogni trillo cadenzava la loro giornata: la sveglia del mattino, la preghiera, il bagno, la parata militare. Il “Saluto al Duce” più volte nell’arco della giornata; inni  a continuazione; vigevano persino sgangherati tormentoni di questa fattura” “Se non ci conoscete guardate in petto, noi siamo i tripolini, portateci rispetto”.  Ai maschi erano destinate marce militari con divisa e moschetto, sotto il sole, sotto la neve, per temprare il fisico e formare il soldato di domani: ossia I fatidici, vantati e mai raggiunti 8 milioni di baionette!. Così potente e vigorosa era la propaganda inculcata che molti di questi bambini chiesero alla maestra di essere mandati al fronte perché vogliosi di morire per il Duce.  Alle bambine le vigilatrici prospettavano lo stato di “figlie dell’Italia e del Duce con  un futuro di madri degli eroi italiani che andranno a combattere e morire”. Nel frattempo i collegamenti con la Libia divennero sempre più difficili fino alla totale cessazione.  Agli italiani i notiziari dell’ E.I.A.R continuavano a ripetere che la guerra stava proseguendo nel migliore dei modi.  Alcuni filmati di propaganda dell’Istituto Luce mostravano i bambini che lanciavano, attraverso la radio, saluti e baci alle proprie famiglie, ignari che le loro parole non sarebbero mai giunte a destinazione. Dopo l’8 settembre 1943 alcune colonie furono abbandonate con l’avanzare  degli Anglo-Americani ed i bambini  trasferiti più a nord dove si era costituita la Repubblica di Salò: lo sbando divenne totale durante l’ultimo anno di guerra. Ai giovanissimi  coloni libici nessuno pensò più: alcuni trovarono riparo nei conventi e nei monasteri.  I più fortunati riescono a rintracciare lontani parenti che vivevano in Italia.  Altri dovranno aspettare il termine del conflitto o addirittura gli anni successivi per incontrare nuovamente i genitori, senza talvolta riconoscerli ed essere riconosciuti.         Erano partiti bambini e sono tornati adulti

I tredicimila ragazzi italo-libici dimenticati dalla storia: L'incredibile storia di 13.000 bambini partiti dalla Libia nel 1939 e che hanno rivisto i genitori solo alla fine della 2° Guerra Mondiale di [GRAZIA ARNESE GRIMALDI]

 

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